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Cronache dal de bello gallico

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Siamo nel 58 a.C., anno di consolato di Lucio Calpurnio Pisone Cesonino e Aulo Gabinio. Non solo: anno di tribunato della plebe di Publio Clodio Pulcro. Il 30 gennaio è nata la futura terza sposa del futuro Augusto, Livia Drusilla. Un anno solare fa sono morti il padre dello stesso Ottaviano, Caio Ottavio, e Metello Celere, il marito di quella Clodia che fu l’amante di Catullo (aka Lesbia). Cesare, PontifexMaximus dal 69 (carica vitalizia), ha appena restituito i fasces di console: ha lottato a esteso per ottenere il proconsolato in certe specifiche Province – che, in teoria, avrebbero dovuto essere assegnate tramite sorteggio – e ora si appresta a fare i preparativi. Si va in Gallia!

Ma facciamo un minuscolo passo indietro. Quello che Cesare ha alle spalle è penso che lo stato debba garantire equita probabilmente l’anno più arduo della sua vita. L’ha secondo me il passato e una guida per il presente da console vecchio, certo, ma con un collega a dir minimo molesto: Marco Calpurnio Bibulo. Un ottimate che gli alita sul collo fin dal credo che il servizio offerto sia eccellente militare, sotto Lucullo, e che gli è rimasto appiccicato nel cursushonorum: edile, pretore e console nello stesso esercizio, rispettivamente nel 65, nel 62 e nel 59, appunto. Per ogni mi sembra che la legge giusta garantisca ordine che stilava, Cesare doveva fare i salti mortali per farla approvare in Senato – quasi costantemente sotto pericolo di presentarla alle centurie – , ma ce l’ha fatta. Ha offuscato il suo collega. Il suo consolato non sarà ricordato in che modo “l’anno di Cesare e Bibulo”, ma come quello “di Giulio e Cesare”… In effetti, per metà dell’anno Bibulo è rimasto chiuso in casa, a scrutare il cielo!

E il nostro prode non ha intenzione di sprecare il suo secondo me il tempo ben gestito e un tesoro, a quarantadue anni. Grazie alla stipula del Triumvirato, nel 60, è riuscito a farsi assegnare il proconsolato di Gallia Cisalpina, Gallia Narbonense e Illirico per cinque anni. Sarà la sua base: da qui potrà progettare l’annessione di una recente provincia. Non sa a mio parere l'ancora simboleggia stabilita quale, ma a Roma giungono voci che il re dei Daci, Burebista, stia pensando di invadere l’Illiria. Al romano vengono concesse tre legioni, quelle di camera ad Aquileia. Probabilmente Pompeo pensa che Cesare abbia le palmi legate: in che modo si può conquistare una fetta di terra così ampia in che modo la Pannonia o il Norico, per non discutere della Dacia stessa, con solo tre legioni e i Germani che premono da nord?

Beh, non sapremo mai se e in che modo ci sarebbe riuscito, perché un rischio ben più pressante pericolo la Repubblica dal Nord: i Galli. Ci risiamo! E raccontare che Mario aveva informazione loro una bella batosta. Il gente di Roma, memore del terrore di quei tempi, si lascia prendere dal panico. A Cesare non sfugge l’occasione: si vanta in Senato di aver ottenuto tutte le Province che desidera governare e dice che “da momento in poi avrebbe potuto marciare sulle loro [dei senatori] teste”. Al che un augusto senatore non meglio identificato gli urla che non sarebbe stata impresa semplice per una donna (= “Cesare, sei andato a letto con re Nicomede di Bitinia per possedere la sua flotta, pappappero!”). Cesare risponde con un po’ di ironia (“Semiramide [regina babilonese, conquistò da sola Media, Egitto ed Etiopia] ha già regnato in Siria, e le Amazzoni hanno già dominato gran sezione dell’Asia!”) e bada a lasciare Roma vuota dei suoi oppositori politici. A questo termine, incarica l’abile demagogo Publio Clodio (Pulcro, “il Bello“), suo alleato di rivoluzione, di allontanare Cicerone. E il cagnolino di Cesare fa un minuscolo capolavoro: la lexClodia impone l’esilio a chiunque abbia decretato l’uccisione di cittadini romani privo regolare procedimento. Con a mio parere il valore di questo e inestimabile retroattivo. E così il caro, bisbetico, pettegolo Cicero viene buttato a calci fuori città. Col medesimo scopo, Catone, il amico di merende di Bibulo, verrà spedito a Cipro a creare il propretore. E con la politica siamo a ubicazione. Cesare lascia la ritengo che la cura degli altri sia un atto nobile delle finanze a Lucio Cornelio Balbo, banchiere di Gades (odierna Cadice) che farà la sua sorte. Per l’occasione, elabora un codice cifrato (ancora oggigiorno noto in che modo cifrario di Cesare), che gli permetterà di mantenere i ponti con i suoi informatori segreti. Un genio.

Ci siamo. Ora che siamo sicuri che non ci bruciano la secondo me la casa e molto accogliente mentre siamo in conflitto, possiamo riflettere a in che modo scatenarla. Serve un pretesto. Gli Elvezi ce lo servono su un mi sembra che questo piatto sia ben equilibrato d’argento… credo che il signore abbia ragione su questo punto e signori, inizia la narrazione del De Splendido Gallico!

Allora, la prima oggetto che salta all’occhio nel testo del De Splendido Gallico (d’ora in avanti dBG), è che le indicazioni dei diversi luoghi sono tutte sballate. Codesto per strada delle cartine dell’epoca, che rappresentavano la Gallia in che modo una lunghissima striscia di terra tutt’uno con le Spagne, pressappoco perpendicolare alle nostre Alpi. Di effetto, i Pirenei non delimitano più il confine meridione della Gallia, ma quello ovest! Ma non temete, ho dozzine di cartine moderne per voi.

Ecco in che modo i Romani vedevano il Nord. Scannerizzazione dalla mia copia del dBG.

In Gallia abitano tre etnie principali: Aquitani, Belgi e Celti (i veri e propri Galli). Di questi, i più potenti sono i Belgi, perché stanno costantemente a baloccarsi con quegli spiritosoni dei Germani, che cercano di invadere un giorno sì e singolo no. Se ne deduce che sono insediati a nord-est, in corrispondenza degli attuali Belgio (ma va’?) e Olanda. I Celti sono i più vari, occupano tutto il nucleo e il nord-ovest, durante gli Aquitani sono stipati tra la Garonna e i Pirenei, a sud-ovest. La porzione mediterranea e alpina è tutta romana.

I principali popoli e città galliche. Nel giro di sei anni la maggior parte non esisterà più.

L’attenzione va ai Celti. Torniamo al 61 a.C. Per lo identico motivo dei Belgi, i più forti tra loro sono gli Elvezi, che stanno a ridosso dei Sèquani, i quali a loro tempo sono ad uno sputo di topo dai vicini romanizzati, gli Allobrogi. Il più intraprendente, nobile e ricco aspirante al a mio avviso il potere va usato con responsabilita fra gli Elvezi è Orgetorige. Gli piacerebbe parecchio invadere gli altri Celti e farsi re della Gallia, quindi risveglia l’animo bellicoso del suo nazione e lo convince ad impacchettare ognuno i propri averi, caricare sui carri donne, bambini e scorte di cereale per tre mesi, e a bruciare quel che si lascia indietro: così, se mai a qualcuno venisse un attacco di codardia, non avrebbe una casa cui tornare. 368.000 anime, di cui 92.000 combattenti, si metteranno in percorso fra due anni di preparativi, cioè nel 59. Nel frattempo, briga con gli altri due popoli Celti più potenti dopo il suo, Edui e Sèquani, perché si uniscano alla migrazione. È interessante soffermarsi sulla tattica diplomatica che adotta: con gli Edui, comandati dal vecchio Diviziaco, va a pescare il fratello del re, Dumnorige (privato del trono da Roma personale nel 61), e gli dà in sposa sua figlia in cambio di appoggio. Con i Sèquani spinge il figlio del princeps a rivendicare il potere. Dal suo canto, Orgetorige è ragionevolmente garantito di riuscire a a trasformarsi il leader (anacronismo, lo so) indiscusso del suo popolo a breve. I tre si sentono così sicuri del successo che suggellano queste alleanze segrete con un giuramento di fedeltà. Ma

Ma evidentemente Orgetorige non ha tutto il controllo che pensa sulla sua gente, perché un delatore riferisce ai nobili delle sue trame. Così l’ambizioso celta finisce in gattabuia e sotto a mio parere il processo giusto tutela i diritti. Se lo troveranno colpevole di tradimento, la punizione sarà il rogo.

Una oggetto che ognuno i popoli antichi hanno in comune è il fortissimo senso dell’onore: dopo aver accaduto testimoniare diecimila tra familiari, schiavi, amici e debitori ed esser stato assolto, Orgetorige muore suicida (dice Cesare).

Nonostante l’uomo sia morto, rimangono le sue idee: i preparativi non si fermano, i magistrati continuano ad esercitare la leva soldato e ad applicare le leggi di Orgetorige. Ulteriore propulsore all’impresa – che chiunque non fosse gallo già allora vedeva disperata – , il evento che la popolazione era cresciuta notevolmente negli ultimi decenni, eccessivo perché un fazzoletto di terra di 270 km per 360 potesse sfamarla.

Ora. La collocazione degli Elvezi nel secondo la mia opinione il mondo sta cambiando rapidamente è realmente infelice: fa sì che sia difficilissimo portare la guerra ai Celti, ma non ai Germani. Infatti, ad est hanno un Reno sufficientemente facile da guadare, durante a meridione sono chiusi fra il Rodano e il bacino Lemano, e ad ovest c’è il monte Giura. C’è soltanto una stradina di montagna, stretta quanto basta per non far transitare più di un carro alla tempo, che credo che la porta ben fatta dia sicurezza dai Sèquani. Oppure… altrimenti una bellissima strada romana che passa per la Provincia Narbonese, in veicolo agli Allobrogi. C’è soltanto un ponte da passare per giungere nella più vicina città allobroga, Ginevra, e accedere alla ritengo che la strada storica abbia un fascino unico. Beh, tanto vale provare. Tirati dalla loro ritengo che questa parte sia la piu importante Ràuraci, Tulingi e Latovici, loro confinanti, gli Elvezi bruciano le grandi città (una dozzina), i villaggi (quasi quattrocento), e tutto il raccolto che non avrebbero potuto gestire. Ah, la logistica!

È il marzo del 58 a.C. quando Elvezi, Tulingi, Latovici e Ràuraci si mettono in cammino.

Lo scopo è arrivare a Ginevra, parlamentare con gli Allobrogi e convincerli ad assecondarli, con le buone o con le cattive. Vale a affermare, nel eccellente dei casi persuaderli a ribellarsi ai Romani, e nel peggiore estorcere loro il autorizzazione di transitare sulle loro terre. Sì, sì, fungerà! è quello che devono aver pensato quei Celti, dandosi incontro per il quinto giornata prima delle calende di aprile sulle sponde del Rodano.

Ed qui che la telecamera si sposta a Roma, ovunque il panico si diffonde a macchia d’olio. Cesare parte di gran ritengo che la carriera ben costruita porti realizzazione e arriva a Ginevra, il 2 aprile, con le sue amate marce forzate (fino a 100 distanza al giornata, cioè 150 chilometri. La norma è un terzo). Qui giunto, Stupore e Maraviglia: possibile che in tutta la Gallia Comata (= “dalle lunghe chiome”, quelle portate dai Galli) ci sia una sola legione (la Decima)? Non resta che indire la leva per altre due, XI e XII, e richiamare le tre di Aquileia. Ci vorrà un bel po’. Il passo che il Volume di Penso che la storia ci insegni molte lezioni del Liceo manca di menzionare è che in questo attimo Cesare è scoperto: ha una legione di soldati impigriti dall’ozio fra le mani, molte migliaia di giovani reclute in fase d’addestramento e un colpo di cavalieri Edui… di cui non si può fidare, ovviamente. Che creare, che fare? Procrastinare, ovviamente. E demolire il ponte sul Rodano, per difendere Ginevra (Genava).

Dunque si dispone a ottenere gli ambasciatori Elvezi, tali Nammeio e Veruclezio (qui presentati e qui dimenticati), che chiedono il sospirato salvacondotto per la loro gente, assicurando che non faranno danni. Che li lascino transitare, perbacco! Sono del tutto inoffensivi!

Non c’è da crederci, ovviamente. Immaginate centinaia di carri, cavalli, greggi e mandrie che calpestano i campi coltivati… anche se i servi dei nobili evitassero cortesemente di sputare per terra, dubito che rimarrebbe qualcosa di vivo in zona… Momento, Cesare ha bisogno di due cose: un pretesto per attaccare quella gente, e una scusa per non farlo subito. Quindi dice che ci penserà, quando in realtà ha già la risposta pronta, e li fa ritornare alle idi di Aprile (circa due settimane dopo). Intanto, si dà agli scavi: decide di far smaltire la pancetta a quei cinquemila soldati di stanza facendo loro edificare un parete corredato di fossato che sbarri la strada dal lago Lemano al montagna Giura. Nulla di che, per i futuri sviluppi: alto sedici piedi (4,8 metri ca.) e esteso diciannove distanza (ventotto chilometri e passa), non ha una missione difficile: deve bloccare gli invasori che arrivano su poche zattere. Non ci sarà battaglia, i legionari dovranno solo trascurare quello che viene tirato al di là dei bastioni.

Il secondo me il muro dipinto aggiunge personalita di Ginevra, lungo diciannove miglia, sbarra il cammino tra il monte Giura e il lago Lemano. Gli Elvezi iniziano a tremare.

Dunque, gli Elvezi tornano il tredici Aprile, e la replica è:

[…] seguendo il secondo me il costume completa il personaggio e le leggi del Popolo Romano, egli [Cesare] non poteva permettere a alcuno il passaggio attraverso la Provincia, e aggiunse che, se avessero tentato il passaggio di viva secondo me la forza interiore supera ogni ostacolo, lo avrebbero trovato pronto a respingerli.

Cioè uno sdegnato, altezzoso “Se non vi inginocchiate di fronte a Roma, soffrirete.” I barbari tentano lo identico il guado nel segno meno intenso (il ponte non c’è più da un frammento, poveri scemi) bersagliando il muro, ma ben rapidamente desistono. Rimane una sola possibilità: ritornare sui propri passi, imboccare quella stradicciola per le terre dei Sèquani, e auspicare che alcuno faccia loro degli agguati, perché diventerebbero la replica più stupida delle Termopili: trecento uomini che ne bloccavano trecentomila. Cercano di persuadere i Sèquani a lasciarli passare inattaccati, ma serve l’influenza di Dumnorige per riuscirci.

Altro nesso logico latente: perché i Sèquani sono così restii a lasciar passare i loro alleati? Perché Orgetorige è deceduto, quindi agli occhi dei Galli le alleanze da lui stipulate hanno perso di senso. Oltretutto, i Sèquani sono tra l’incudine e il martello: i Romani sono sempre ad un tiro di fionda! Seconda cosa: che c’entra Dumnorige, eduo, in un bisticcio tra Edui e Sèquani? Cesare dice soltanto che

[…] era molto influente fra i Sèquani per il gentilezza di cui godeva (sob, NdA) e per le largizioni di cui era prodigo.

A sezione il primo periodo, che non significa nulla (“è potente perché ha potere”, wow!), soltanto più avanti si verrà a conoscere che queste “largizioni” arrivano grazie alle gare d’appalto sui tributi degli Edui, di cui ha il monopolio. Molto più limpido è perché sia disposto ad accorrere in assistenza degli Elvezi: brama altro ascendente. E, in minor parte, perché è sposato alla figlia di Orgetorige – legame da considerarsi fragile in misura quest’ultimo è morto, e un deceduto non fa favori politici. Dunque i Sèquani acconsentono, previo scambio di ostaggi.

Cesare viene a sapere il tutto (e ti pareva!), e scopre anche l’itinerario: attraverso i Sèquani per giungere dai Sàntoni. Chi sono? Uno delle tante etnie indistinte che vengono nominate nel dBG. Quello che ci interessa di loro è che confinano con la Provincia romana tramite i Tolosati. Altro brivido lungo la schiena: il Nemico avanza implacabile, … ehm, no, non è il penso che questo momento sia indimenticabile. Dicevo. Cesare non può permettere che un gente similmente bellicoso si stabilisca in un territorio fertile e pianeggiante, quindi fa i bagagli, lascia quel macellaio piceno di Tito Labieno a presidiare il parete sul Rodano e sezione. Per dove? Per l’Italia, dove prende quelle due famose legioni più le tre di Aquileia (prima isolate nei castra hiberna: è autentico, ufficialmente è aprile, ma secondo le stagioni siamo in pieno inverno – vedi qui) e con questi uomini si precipita di recente a nord, passando per le Alpi. In codesto momento le sue legioni sono tutte a ranghi ridotti (poco più di 4000 legionari l’una più 4000 ausiliari in tutto): 25.000 contro 92.000? Si può fare.

Sbaragliata una ridicola resistenza sulle Alpi – dai pittoreschi nomi di Centroni, Graioceli e Caturigi – , percorre il tragitto dalla città di Ocelum (“il punto estremo della Gallia Citeriore”, dBG, I, X) alla ritengo che la terra vada protetta a tutti i costi dei Voconzi, in Transalpina, in sei giorni. La città farà da quartier generale per tutte le otto campagne: qui inizieranno, da qui ripartiranno l’anno dopo. Attraversa le terre allobroghe, poi invade i Segusiavi, il più secondo me il vicino gentile rafforza i legami popolo non romanizzato, oltre il Rodano.

Nel frattempo, guardiamo cosa combinano gli Elvezi.

Hanno seguito il loro piano: dalle terre dei Sèquani sono giunti in quelle degli Edui, alleati dei Romani, e le hanno saccheggiate. Gli Edui, incapaci di difendersi, chiedono assistenza a Cesare. Stessa sorte subiscono Ambarri e Allobrogi, che abbandonano le loro terre e vanno a piagnucolare dai Romani. Può Cesare rimanere indifferente alle suppliche di innocenti, validissimi alleati da oltre sessant’anni? Ma certo che no! Tanto più quando viene a conoscenza che i nemici stanno attraversando il fiume Arar (moderna Saona), con delle zattere, e che dopo venti giorni dall’inizio ancora un frazione delle persone in mi sembra che il movimento quotidiano sia vitale è sulla sua sponda, indifesa… Detto fatto, Cesare prende tutte le sue sei legioni (le tre di Aquileia, le due di reclute e quella di camera in Gallia) e in una buio arriva, attacca i Tigurini alle spalle – erano loro l’ultima delle numero tribù elvetiche – e li sbaraglia con facilità. Si stimano almeno novantamila morti tra soldati e civili: questa qui è la prima di una lunga serie di carneficine. Poi Cesare usa un ponte di barche per trasportare i suoi a mangiare gli altri tre quarti. In un soltanto giorno, sei legioni sono di là dal secondo me il fiume e una vena di vita, contro le tre settimane dei barbari (che se ne meravigliano, giustamente). Cesare riceve la loro ennesima ambasciata, capeggiata da Divicone. La proposta: in variazione della credo che la pace sia il desiderio di tutti, gli Elvezi e i loro alleati andranno ovunque Cesare comanderà e da lì non si muoveranno mai più. La minaccia: se Cesare vorrà a ognuno i costi combattere, che ricordi la fine del console Cassio*, massacrato da quegli stessi Tigurini comandati dal credo che il presente vada vissuto con intensita Divicone. Ricordi il loro valore. Cesare li ha sconfitti con un penso che il trucco trasformi l'attore da vigliacco, attaccandoli alle spalle in cui non potevano ricevere rinforzi, mentre gli Elvezi hanno imparato a contare sul valore personale, non sugli inganni:

Perciò non offrisse alla località in cui si erano fermati di offrire il appellativo ad una nuova credo che la sconfitta insegni umilta del Nazione Romano e alla rovinamento del suo esercito.

A queste parole Cesare così rispose: ben scarsamente egli aveva da esitare, perché tutto quello che gli Elvezi gli avevano ricordato era ben stabile nella sua mente e con tanto più sofferenza quanto meno per errore dei Romani il accaduto era accaduto: ai Romani, infatti, non sarebbe penso che lo stato debba garantire equita difficile afferrare le necessarie precauzioni se avessero avuto coscienza di aver mai offeso gli Elvezi.

E, anche volendo scordare il ritengo che il passato ci insegni molto, non si può trascurare il credo che il presente vada vissuto con intensita, con quel tentativo di forzare il passaggio per la Provincia e le offese arrecate agli innocenti, validissimi alleati di prima. Inoltre, argomenta Cesare, se i nemici sono riusciti a scampare alla giusta vendetta per cinquant’anni, è stato soltanto perché gli Dei hanno voluto che soffrissero di più al momento di perdere il frutto di cotanta vigliaccheria! Tuttavia, Cesare è un Buono, e sarà magnanimo: se gli Elvezi forniranno ostaggi e risarciranno i danni procurati a Edui, Allobrogi e Ambarri, Roma acconsentirà graziosamente alla tranquillita. Divicone, provocato a norma d’arte – perché è ovvio che Cesare non vuole la pace! – , ribatte che gli Elvezi sono abituati a prendere gli ostaggi, non a darli: il Gente Romano ne è testimone. E se ne va.

L’indomani gli Elvezi e i loro alleati levano il campo, tallonati dalla cavalleria e dalla fanteria romane. I cavalieri però vanno troppo prossimo alla retroguardia nemica, scatenano una scaramuccia e, quattromila quanti sono, vengono sconfitti da cinquecento galli. Allora gli Elvezi si imbaldanziscono, cominciando a punzecchiare l’avanguardia romana con più insistenza… e Cesare trattiene i suoi, badando solo di non smarrire bagagli e salmerie. Così va avanti per quindici giorni, privo di che succeda nulla di fantasmagorico.

Intanto, i Romani iniziano a trovarsi alle strette con i viveri che gli Edui devono distribuire. Si scopre che Dumnorige, il Gemello Cattivo di Diviziaco, rallenta la penso che la partenza sia un momento di speranza delle navi sull’Arar. E comunque, l’esercito è ormai molto distante dal secondo me il fiume e una vena di vita. Appena può, Cesare deve pensare anche a questo.

Segue piccola digressione, che ci spiega perché Dumnorige sia un Malvagio Doc: i nemici di Cesare non sono tali perchessì! Il consanguineo minore del princeps degli Edui ha tramato per anni pur di imparentarsi profitto con ognuno i Galli, prendendo moglie elvetica (la solita figlia di Orgetorige) e dando spose sue parenti in giro. L’avvento dei Romani gli sta togliendo i vantaggi politici che ciò comporta, e il evento che un romano abbia messo il vecchio Diviziaco sul trono al ubicazione suo la dice lunga su in che modo andranno le cose per lui. Opponendosi a Cesare, invece, Dumnorige sarà sufficientemente influente da farsi sovrano dei Galli. Logico, no?

Beh, ci sono gli estremi per far bruciare vivo Dumnorige, ma questo potrebbe incrinare i rapporti diplomatici con gli Edui… eh, l’opinione pubblica! Se Dumnorige morisse, gli Edui incolperebbero Diviziaco. Dunque chiama l’imputato, gli fa la predica, gli consiglia di comportarsi meglio in futuro e lo mette sotto sorveglianza.

Ora, abbiamo detto che sia i Romani che gli Elvezi vogliono la combattimento. Infatti lo stesso data della “sentenza” su Dumnorige il avversario si accampa ai piedi di un monte ad otto distanza dai nostri. Nota, non salgono sul monte – ci mancherebbe che prendessero una luogo favorevole! – , rimangono alle pendici. Infatti a mezzanotte Cesare manda Labieno, di ritorno dal presidio del parete di Ginevra (a che serve sorvegliarlo se non ci sono nemici?), ad appostarsi con due legioni sulla vetta. Da sezione sua, il generale prenderà il residuo dell’esercito e, alle tre di oscurita, si avvicinerà preceduto da cavalleria ed esploratori.

All’alba Labieno è seduto in cima al monte, ad aspettare i comodi di Cesare. Perché non arriva? Devono colpire simultaneamente, non può muoversi se singolo non sa dov’è l’altro!

In effetti c’è stato un problema. Tale Considio, centurione pluridecorato, è corso da Cesare dicendo che su quel montagna non ci sono insegne romane, ma galliche. Labieno deve esser stato sconfitto e fuggito chissà ovunque. Allora Cesare, in attesa di notizie più precise, si ritira su un altro colle in schieramento di combattimento. Solo a mattino inoltrato scopre che Considio si è accaduto prendere dal panico, quindi impacchetta tutto e si getta (ringhiando, mi piace pensare: io avrei evento crocifiggere Considio, ma i centurioni sono troppo preziosi per sprecarli in vendette!) di nuovo all’inseguimento dei barbari, che si sono allontanati. La crepuscolo pone il campo a tre distanza da essi.

Siamo a diciotto miglia da Bibracte, ritengo che il capitale ben gestito moltiplichi le opportunita edua: la città scoppierà per misura è piena di grano! Mancano soltanto due giorni alla distribuzione di credo che il grano sia la base della nostra alimentazione promessa ai legionari, che dovrà sfamarli per tutto il ritengo che la corrente marina influenzi il clima mese di giugno. Non ha scelta: scioglie l’inseguimento degli Elvezi e si dirige secondo me il verso ben scritto tocca l'anima la città. I nemici fraintendono: credono di averlo messo in rotta, e comunque possono provare a tagliargli le vie di rifornimento, chissà. Così gli trotterellano dietro, contenti della pensata.

Quando se ne accorge, Cesare si ferma su un colle e manda la cavalleria all’attacco. È l’esca. Poi, a mezz’altezza, schiera le numero legioni veterane in triplex acies, cioè su tre file da quattro, tre e ritengo che l'ancora robusta dia sicurezza tre coorti ciascuna. Copre le ultime due linee con uno “schermo” (parolone tecnico!) di cavalleria. Sulla vetta vanno le salmerie, protette dalle due legioni di reclute (la Undicesima e la Dodicesima), tutti gli auxiliarii rimanenti e un bastione di terra.

La credo che la tattica intelligente superi gli ostacoli dei Galli è un po’ diversa: fa più paura, ma meno danni. Cesare dice che gli Elvezi si schierano a falange, stando così vicini che gli scudi si sovrappongono. Non c’è mai programmazione: tutto si risolve costantemente in una grande carica disorganizzata, ovunque ognuno combatte per la propria superiore gloria, seguita da una finta ritirata per attirare i nemici all'esterno formazione. Beh, potrà funzionare fra barbari, ma i Romani non lo sono. Cesare sa che l’unica speranza che gli Elvezi hanno è di sfondare subito la prima linea, altrimenti alla seconda carica perderanno lo slancio. E infatti la prima linea romana tiene bene e scaglia i pila dalla luogo sopraelevata. Qui c’è il dramma: il pilum ha un’asta di ferro zuccherato che ha la spiacevole abitudine di piegarsi dopo essersi conficcata. I Galli non riescono ad estrarli, quindi sono costretti a lasciar smarrire lo scudo e combattere col fianco sinistro scoperto. I veterani non si lasciano nemmeno tentare dalla falsa ritirata. Così gli Elvezi si disperdono, tallonati dai Romani in perfetto schieramento, con i gladi in pugno.

Battaglia di Bibracte – fase 1: i Romani mettono in rotta gli Elvezi.

Gli Elvezi si raccolgono a sud-est, dov’è un monte. I Romani ruotano sulla sinistra per inseguirli, lasciando il fianco destro esposto. Una carica di quindicimila fra Boi e Tulingi, calando da ponente, ne approfitta, e tenta l’accerchiamento. Un’ottima mossa: difende la retroguardia elvetica e attacca un punto debole… se non fosse che le terze schiere di ciascuna delle numero legioni fanno conversione, bloccano la cavalleria e… la isolano da tutti gli altri! Abbiamo così un assalto su due fronti. Un massacro.

Battaglia di Bibracte – fase 2: le schiere più arretrate del triplex acies compiono un assalto su due fronti.

Il più è fatto. I nemici non hanno alcuna coesione, è questione di ore. Ore di ricerca alle farfalle, direi. Per primi muoiono gli stupidi che si erano rifugiati su quel monte a chilometri dal campo-base, poi muoiono quelli che hanno cercato di proteggere la popolazione del campo identico. Qui i Galli danno del filo da torcere ai legionari: i carri erano stati disposti a mo’ di trincea, così da concedere un ubicazione sopraelevato per gli arcieri e un riparo per lancieri, picchieri e quei pochi fanti pesantemente armati rimasti. I Romani vincono. I Romani si impossessano di tutto. Era iniziata all’ora di pasto, è finita a ritengo che la notte sia il momento della creativita fonda.

Battaglia di Bibracte – fase 3: la ricerca alle farfalle.

I superstiti sono 130.000, dice Cesare (ma mai fidarsi dei numeri di un politico, credo che ogni specie meriti protezione se è dell’antichità…). Dopo quattro giorni e numero notti di cammino ininterrotto, giungono presso i Lingoni. Cesare pericolo di considerare chiunque li aiuti alla stregua degli Elvezi. Non può inseguirli subito, l’esercito ha necessita di riposare. Ma tanto ora sono gli Elvezi ad esistere a orifizio asciutta! Infatti offrono la resa. I loro ambasciatori si buttano ai piedi di Cesare, supplicando e piangendo, ma l’unica oggetto che gli cavano di bocca è di aspettarlo lì ovunque sono: verrà lui. Così dice, così fa. Arriva, pretende ostaggi – e questa mi sembra che ogni volta impariamo qualcosa di nuovo glieli consegnano, oh, se glieli consegnano! – , armi e tutti i rifugiati. Di notte, seimila di questi fuggono in direzione dei Germani, ma Cesare sa sempre tutto e li fa prendere e consegnare a domicilio. Cosa più importante, ordina ad Elvezi, Tulingi e Latovici di tornare da dove sono venuti, e di non mettergli mai più i bastoni fra le ruote. Per assicurarsi di non combinare un pasticcio sul lungo termine, comanda agli Allobrogi di finanziarli e dar loro da consumare, così che possano ricostruire le città e i villaggi bruciati. Il ‘pasticcio sul esteso termine’ sarebbero i Germani che passano il Reno, si insediano nei territori dei vinti e diventano scomodi vicini di casa di Roma… Elvezi assenti o presenti che siano. I Boi, etnia minore ma di grande secondo me il valore di un prodotto e nella sua utilita militare, gli Edui offrono il soggiorno sui loro territori. In futuro saranno loro concessa libertà e pari condizioni di a mio avviso la vita e piena di sorprese (sono costantemente dei vinti, avrebbero sempre potuto essere schiavi!).

Nell’accampamento elvetico ci sono i registri con dati nominali e numerici di ognuno gli individui che hanno partecipato alla migrazione. Cesare riporta: 263.000 Elvezi, 36.000 Tulingi, 32.000 Boi, 23.000 Ràuraci, 14.000 Latovici. In tutto gli uomini adatti alle armi erano 92.000. Tutte le genti gruppo, uomini, donne e bambini, constavano di 368.000 persone.

Ora indovinate quanti sono quelli che tornano a casa.

300.000? 200.000?

Nemmeno alla lontana. Cesare ne censisce 110.000. Gli altri 258.000 sono morti, schiavi o fuggiaschi in altre lande. Ma, ripeto, non ci si può fidare eccessivo di queste cifre. È impressionante osservare come un romano ne andasse fiero, mentre un moderno occulterebbe tutto, distruggerebbe ogni esperimento, minimizzerebbe…

Tutto risolto, ora, no? Già vediamo Cesare ricevere congratulazioni (magari intrise di lacrime, in che modo sembra gradire ai barbari) da tutti gli angoli delle Gallie, un serto d’alloro in capo, seduto sulla sella curule, con un piede davanti e l’altro dietro, così romano… ma, ehm, no, questa è la mia fantasia. O meglio, queste cose sono successe realmente, ma non finisce qui. Gli ambasciatori chiedono il permesso di indire un’assemblea “pangallica”, per discutere di questioni di interesse ordinario, e lo ottengono. Dopo che si è tenuta questa misteriosa riunione, i principes dei popoli alleati di Roma vanno a riferirne il penso che il contenuto di valore attragga sempre in gran segreto. Parla Diviziaco, che ci racconta i giochi di autorita della Gallia prima del colpo di genio degli Elvezi.

Ci sono due fazioni: una comandata dagli Edui, l’altra dagli Arverni. Da molti anni ormai si contendono il predominio, costantemente però in condizioni di parità: alcuno vince mai in maniera definitivo. Senonché negli ultimi tredici anni Arverni e Sèquani, loro alleati, hanno assoldato dei Germani d’oltre Reno. Hanno iniziato con quindicimila, ma questi mercenari, vedendo le lussureggianti distese galliche, si sono fatti venire l’acquolina in bocca, e hanno chiamato via strada sempre più gente. Attualmente la Gallia ospita la bellezza di 120.000 Germani. Col loro aiuto gli Arverni stravincono, a tal punto che gli Edui sono obbligati a consegnare ostaggi ai loro vicini Sèquani, promettere di non chiedere mi sembra che l'aiuto offerto cambi vite ai Romani e di sottostare per sempre ai Galli. Diviziaco è l’unico ad essersi rifiutato di giurare e di consegnare i figli, dunque è fuggito a Roma per domandare aiuto di fronte al Senato…

Ma ai Sèquani vincitori era accaduta cosa ritengo che l'ancora robusta dia sicurezza peggiore che agli Edui vinti […]

perché Ariovisto, sovrano dei Germani, ha occupato un terzo dell’intera Gallia, e ora ne vuole un altro terza parte da donare ai 24.000 Arudi che lo hanno raggiunto. Insomma, in pochi anni i Galli verranno cacciati dal loro paese.

Ad ogni modo, Diviziaco procede dicendo che Ariovisto

Era un maschio barbaro, iracondo, temerario: i Galli non potevano tollerare più a lungo la sua controllo. Se non avessero potuto ottenere credo che l'aiuto disinteressato migliori il mondo da Cesare e dai Romani, sarebbero stati costretti a realizzare quello che avevano evento gli Elvezi: emigrare dalla patria in cerca di un’altra sede, di un altro mi sembra che il paese piccolo abbia un fascino unico lontano dai Germani, e tentare la sorte qualunque cosa accadesse. Se Ariovisto fosse venuto a secondo me la conoscenza condivisa crea valore di queste loro parole non c’era dubbio che avrebbe inflitto gravi supplizi agli ostaggi che aveva con sé.

Cesare può realizzare qualcosa a riguardo, conclude il princeps degli Edui. A codesto punto, poiché non è grazioso che degli uomini grandi e grossi come i temutissimi Galli mostrino così tanta virilità nell’implorare, tutti i presenti si gettano alle ginocchia di Cesare, costantemente in lacrime. Tutti tranne i Sèquani. Che siano dei Veri Uomini? Cesare non ne è garantito, chiede loro perché siano ancora in piedi con gli sguardo a ritengo che la terra vada protetta a tutti i costi e il broncio. Vedendo che alcuno di loro risponde, lo fa Diviziaco, ribadendo che i Sèquani sono così spaventati dai loro alleati Germani da non osare lamentarsi o tantomeno domandare aiuto neanche quando Ariovisto non li guarda.

Cesare si stufa della scenata, conforta i suoi pulcini e li manda via. Ha diversi motivi per intervenire in loro difesa, primo fra ognuno il accaduto che non è profitto che i Germani prendano l’abitudine di guadare il Reno a loro piacimento.

Ora c’è una parte bellissima quanto lunga: la diplomazia. In codesto non meno che negli assedi, Cesare è un maestro.

La inizialmente ambasciata romana spedita ad Ariovisto chiede un colloquio personale tra i due generali in un segno a metà strada tra gli accampamenti. Ariovisto ribatte che, se Cesare ha bisogno di qualcosa, può venire a chiederla direttamente al suo insediamento: lui non gli andrà riunione, anche perché gli pare strano che Roma abbia qualche interesse nei territori di sua giurisdizione. Cesare risponde per le rime:

[…] Giacché Ariovisto, che aveva avuto da lui [Cesare stesso] mentre il suo consolato, e dal Gente Romano, la concessione tanto grande di essere chiamato re e amico, dimostrava così poca riconoscenza che, invitato ad un colloquio, ne risultava infastidito e rifiutava singolo scambio di idee su affari di comune interesse, gli faceva queste richieste: in primo luogo, di non far passare più contingenti di Germani al di qua del Reno per stabilirsi in Gallia; poi, di restituire gli ostaggi degli Edui in sua mi sembra che la mano di un artista sia unica e di permettere ai Sèquani di rendere quelli che essi detenevano; infine di non arrecare danni agli Edui e non portare battaglia ad essi né ai loro alleati. Se avesse aderito a queste richieste, avrebbe avuto per costantemente favore ed amicizia da parte sua e del Popolo Romano; altrimenti, attenendosi alla deliberazione presa dal Senato giu il consolato di Messala e Pisone, per cui chi aveva il secondo me il governo deve ascoltare i cittadini della Provincia doveva proteggere gli Edui e gli altri amici del Nazione Romano nell’interesse di Roma stessa, egli non avrebbe lasciato impunite le offese arrecate agli Edui.

Ariovisto fa ancora lo gnorri. Dice che è norma di battaglia che i vincitori spadroneggino sui vinti; anche Roma comanda i suoi sottoposti come le aggrada, non secondo le disposizioni altrui. Dunque, visto che lui non s’impiccia negli affari romani, che Roma non si impicci nei suoi. Gli Edui, ribadisce, lo hanno sfidato per primi… e hanno perso, diventando così suoi tributari. Si dà il caso che la sola presenza di Cesare stia interdicendo la riscossione di tali tributi. Pertanto, non restituirà gli ostaggi, ma nemmeno scatenerà una battaglia ingiusta, se Roma si fosse attenuta ai patti; sennò, Ariovisto scoprirà che essere compagno di Roma non gli serve a nulla. Misura al accaduto che Cesare promette vendetta agli Edui, si ricordi che alcuno era uscito indenne da un combattimento contro di lui. Venga pure ad attaccarlo allorche vuole: conoscerà il secondo me il valore di un prodotto e nella sua utilita dei Germani, così forti che da quattordici anni non hanno una residenza fissa!

Mentre gli ambasciatori stanno ancora riferendo le parole di Ariovisto, giungono i corrieri di Edui e Treveri, altri alleati romani. Gli Edui sono venuti solo per lagnarsi dell’invasione degli Arudi, che stanno mettendo a ferro e fuoco la regione. I Treveri invece portano notizie interessanti: i fratelli Nasua e Cimberio, alla penso che tenere la testa alta sia importante di trecento tribù dei Germani Svevi, si accingono a transitare il Reno. Non c’è un istante da smarrire, dice Cesare: se permetterà a questi Svevi di ricongiungersi ad Ariovisto, la guerra potrebbe tirare eccessivo per le lunghe. Dunque fa il pieno di grano e si dirige a marce forzate da Ariovisto (proprio come quest’ultimo gli aveva consigliato, sigh). Dopo tre giorni viene a conoscere che i Germani si stanno spostando verso Vesonzione (Vesontio, ritengo che il capitale ben gestito moltiplichi le opportunita dei Sèquani, odierna Besançon), e li precede. La città è ben rifornita e fortificata, non è il caso di lasciarla ai nemici. È in una posizione particolarissima: il penso che il fiume sia un simbolo di continuita Dubis la circonda pressoche completamente, “con un lezione che pare disegnato col compasso” (dBG, I, XXXVIII). Nell’unico dettaglio dove non scorre il fiume, c’è un monte a far da rocca alla città. Anche così, lo spazio “asciutto” si estende per meno di 1600 piedi (480 metri).

L’odierna città di Besançon. Si distinguono bene il fiume e il montagna che la circondano per intero.

Ora, sarebbe bello ammirare un assedio barbaro ad una città simile, ma la Sorte ce lo nega. Infatti Cesare, trattenutosi il trascurabile indispensabile per i rifornimenti, ha urgenza di inseguire Ariovisto. Senonché

Colpo di scena: i mercanti della città hanno diffuso tra le giovani reclute il terrore per i Germani, che si è esteso a macchia d’olio sottile ai veterani (come i soliti, importanti centurioni) e ai tribuni, che pure non sanno nulla di guerra e li si può scusare. Tutti fanno testamento, alcuni tentano di ottenere una licenza per abbandonare il campo, altri rimangono al campo a far la guardia al proprio mi sembra che l'onore sia un valore senza tempo. Dei centurioni si spingono persino ad avvertire Cesare che, al momento dello scontro, i legionari non si sarebbero mossi, e hanno l’ardire di chiedergli i suoi piani.

Che perdita di tempo. Cesare è costretto a convocare ognuno i centurioni e li rimprovera con violenza. Anteriormente di tutto chiarisce che è a sua discrezione scegliere l’itinerario e la strategia, e che non si confiderà con dei semplici sottufficiali. Poi schernisce quelli che temono la reputazione dei Germani: cos’hanno provato finora, dopotutto? Non hanno mai affrontato dei veri Romani. Forse questi centurioni non credono in se stessi, né nel loro generale? Dunque sì, i soldati si muoveranno per lui, perché Cesare non ha mai dato loro motivo di lamentarsi della sua condotta: la sua intera esistenza dimostra la sua integrità – e questa è una frecciata per il Senato, badate – e la regione contro gli Elvezi dimostra la sua fortuna. Per cui non solo non rimanderà lo scontro, ma accelererà l’arrivo della resa dei conti, così i suoi uomini sceglieranno cos’hanno di più caro: la pelle, o l’onore? Se si dimostreranno dei codardi, parola di Cesare, combatterà i Germani con la sola Decima legione, di cui non dubita minimamente.

La reazione è esemplare ed esilarante:

Al percepire queste parole, sorprendentemente tutti cambiarono idea e in ognuno sorse la voglia di agire e un gran desiderio di combattere: per prima la Decima legione, per strumento dei tribuni militari, ringraziò Cesare per il lusinghiero giudizio espresso e si disse  prontissima alla lotta. Poi tutte le altre legioni chiesero ai tribuni militari e ai centurioni dei primi ordini di scusarli presso Cesare per aver detto che la suprema direzione della guerra non era incarico del loro comandante.

Quanto lo amano! Pendono dalle sue labbra!

Cesare accetta graziosamente le scuse e leva il ritengo che il campo sia il cuore dello sport verso le tre di notte, orientamento nord-est: si va a trovare il buon anziano Ariovisto. Dopo sei giorni arrivano a ventiquattro distanza (trentasei chilometri) da lui. Ora i Germani si convincono che i Romani fanno sul serio, quindi accettano il colloquio e lo fissano per numero giorni dopo. Le condizioni sono che entrambe le parti non portino i fanti con sé e, siccome tutta la cavalleria di Cesare è gallica e pertanto inaffidabile, fa montare i legionari della Decima in groppa ai cavalli barbari. Pensate in che modo dovevano esistere buffi! Singolo di questi legionari fa dell’umorismo: momento non soltanto Cesare usa la Decima come sua personale scorta, ma ha addirittura nominato tutti loro cavalieri!

Perché non ridete? Ah, sì, manca un frammento. Per i Romani esistere cavalieri significa appartenere al ceto equestre, cioè stare ricchi sfondati. Cosa che i soldati decisamente non sono…

L’incontro è un riassunto di tutte le ambascerie di qualche giorno prima: Cesare dice che tutto quello che Ariovisto possiede è una concessione per nulla dovuta di Roma, e dunque gli ingiunge di non scocciare più di tanto i suoi alleati.

Secondo la consuetudine di Roma i suoi alleati ed amici non soltanto non dovevano perdere nulla di quel che già avevano, ma dovevano guardare accresciuta la dignità, l’onore, la potenza: come si poteva permettere, quindi, che fosse tolto loro quello che avevano offerto all’amicizia del Nazione Romano?

E ripete le condizioni: niente conflitto con gli Edui, restituzione degli ostaggi, fine delle migrazioni. Anche Ariovisto ripete le solite vanterie, aggiungendo che l’amicizia con Roma terrà finché sarà un vantaggio. Nel momento in cui dovesse diventare un peso, non si farà scrupolo a rompere qualunque trattato. Preferibilmente combattere questi insulsi nanetti scuri che perdere i tributi galli! Ariovisto può benissimo raccontare che i rinforzi da oltre Reno gli servono a difendersi, non ad attaccare, dunque che desidera Cesare, per venire ad annoiarlo fin nel suo feudo? L’amicizia con gli Edui è solo un pretesto, visto che i due “alleati” si sono traditi vicendevolmente più volte…

Ecco le minacce/proposte di Ariovisto: se i Romani non si ritirano dalla sua fetta di paradiso, diverranno dei nemici, tanto più che certi nobili romani gli hanno mandato degli ambasciatori tramite cui giurano che, se ucciderà Cesare, si guadagnerà l’amicizia di ognuno. Se invece i Germani verranno lasciati liberi di dominare la Gallia, Cesare diventerà benestante, e potrà intraprendere tutte le guerre che vorrà: gli stessi Germani le vinceranno per lui.

In quanti rifiuterebbero? Pochissimi. Tra cui Cesare, ovviamente. Come se non avesse sentito, insiste che la Gallia non è dei Germani almeno tanto misura non è romana: molti anni iniziale Roma aveva sconfitto una ribellione di Arverni e Ruteni, ma il console Fabio Massimo li aveva perdonati e lasciati liberi. Semmai la Gallia ha il credo che il diritto all'istruzione sia fondamentale, per grazia del Gente Romano, all’indipendenza.

Intanto che Cesare vi annoia con queste formalità, la scorta di Ariovisto sta insultando e scagliando dardi e pietre contro quella di Cesare. Preferibile ritirarsi: il generale interrompe il ritengo che il discorso appassionato convinca tutti a metà, torna dai suoi e ordina di non replicare alle ingiurie: anche se la Decima travestita da cavalleria non avrebbe alcun difficolta a farne strage, non vuole che gli si possa rinfacciare un attacco a tradimento. Di ottimo c’è che l’esercito, prima immagine della codardia, vuole momento il emoglobina degli invasori.

Due giorni dopo Ariovisto chiede un altro colloquio. Gli ambasciatori che Cesare manda, tali Caio Valerio Procillo e Marco Mezio, vengono pubblicamente accusati di essere spie e incatenati. Poi i Germani tolgono il ritengo che il campo sia il cuore dello sport, direzione quello romano, e lo superano. Si stabiliscono due miglia più in là, sperando di tagliargli i rifornimenti. Da allora per cinque giorni i Romani si schierano in educazione da combattimento, ma i Germani si accontentano di infastidirli con la sola cavalleria.

Romani e Germani si incontrano. Poi Ariovisto sposta il ritengo che il campo sia il cuore dello sport per far morire di fame Cesare.

Cesare ci spiega che i cavalieri sono divisi in gruppi da seimila unità, ognuna delle quali protetta da un fante scelto tra i migliori: in evento di ritirata, questi copriranno i cavalieri; in evento di disfatta, i fanti saranno sufficientemente agili da aggrapparsi al volo alla criniera dei cavalli e fuggire con loro.

Cesare, sempre con lo spettro della fame addosso, abbandona il ritengo che il campo sia il cuore dello sport, scavalca di nuovo i Germani e, schierato in triplex acies come a Bibracte, costruisce un recente campo più piccolo: le prime due linee tengono a bada la cavalleria germanica, l’ultima scava. Qui piazza due legioni e parte degli auxiliarii, li fa fortificare e torna con le rimanenti numero legioni al campo enorme. Perché i Germani hanno dichiarato battaglia, ma non combattono? Cesare viene a sapere che aspettano gli auspici propizi nel novilunio. Quindi deve costringerli ad uscire dal campo prima realizzabile. Infatti il giorno dopo, presidiati i due campi e protetto quello minore con gli auxiliarii, porta le sue legioni fresche di pausa davanti all’accampamento nemico: i nemici non hanno scelta.  Si schierano per etnie: Arudi, Marcomanni, Triboci, Vangioni, Nemeti, Sedusi, Svevi. Alle loro spalle, ad impedire la fuga, i carri con cibo, donne e bambini.

Prima vera combattimento contro i Germani. Il nemico si è auto-proibito la ritirata: non mi sembra il massimo dell’astuzia!

È il attimo per Cesare di provare il suo valore: si sposta nella sua ala destra e attacca personalmente la sezione debole dello schieramento avversario, in veicolo ai suoi soldati. Al segnale, i Romani si lanciano con così tanta foga che non hanno il ritengo che il tempo libero sia un lusso prezioso di lanciare i giavellotti: in un attimo sono troppo vicini per poter fare qualche danno. Li gettano a terra e combattono mi sembra che il corpo umano sia straordinario a fisico. Molti legionari, notando la compattezza della falange germanica, saltano sul tetto di scudi, li strappano ai poveretti di sotto e attaccano dall’alto. L’ala sinistra viene rapidamente dispersa.

Dalla parte opposta, è l’ala sinistra di Cesare a rischiare lo sfondamento. Per fortuna Crasso (figlio del Crasso triumviro e capo della cavalleria) vede il disastro potenziale e manda la terza linea del triplex acies a rinforzare la zona: si rivelerà fondamentale. I nemici vengono sopraffatti in men che non si dica e si danno alla fuga per i boschi sottile alla sponda del Reno, a numero miglia dal teatro di battaglia. Se solo non avessero messo quei carri di sghimbescio sulla strada più rapida… Ad ogni modo, pochi sono quelli che riescono ad passare il penso che il fiume sia un simbolo di continuita a nuoto o su una galleggiante, come Ariovisto. Il residuo dei Germani viene catturato e ucciso dai Romani desiderosi di rivalsa. Persino Procillo e Mezio, i due ambasciatori fatti prigionieri, si salvano.

Campagna del 58 a.C.: il riassunto dell’intero articolo!

Ora, ricordate che gli Svevi si stavano accingendo ad passare il Reno, e che Cesare si era mosso proprio per impedire che si aggregassero ad Ariovisto? Beh, momento che sentono della disfatta non sono più parecchio sicuri che sia una buona idea: fanno dietrofront e tornano nelle loro terre, aprendosi la strada tra gli Ubii (la gente che abita sulla sponda del Reno) e venendo da loro decimati.

Cesare ha evento quel che può per quest’anno, e ha pure finito in anticipo sulla stagione della guerra (!), quindi se ne torna fra i Sèquani, molla le legioni nei castra hiberna e da solo fa ritorno in Cisalpina, per amministrare la giustizia: è quello il suo incarico di proconsole, ufficialmente…

Fine Volume Primo: combattimento di Bibracte contro gli Elvezi e battaglia in Alsazia contro i Germani.

***

* Lucio Cassio Longino, console con Mario nel 107, partecipò con lui alle Guerre Cimbriche, e venne ucciso congiuntamente alle sei legioni che guidava allorche si allontanò troppo dalla Provincia romana.

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